LA LETTERATURA SPAGNOLA – PARTE II (L’Ottocento)
di A. Bislenghi
Il romanzo spagnolo dell’epoca romantica è rappresentato dalla scrittrice svizzera naturalizzata spagnola Cecilia Böhl De Faber, che – da autrice – adottò lo pseudonimo di Fernán Caballero, con cui oggi è conosciuta e studiata. Di lei la biblioteca conserva La gabbiana (La Gaviota), una delle sue opere maggiori, uscita nel 1856. Quattro nomi – tutti grandissimi – rappresentano invece i romanzieri di impostazione realista, ma già venata di naturalismo, e dunque assai vicini alla cultura letteraria francese: Pedro Antonio de Alarcón, che pubblica Capitan Veleno (Capitán Veneno) nel 1881; Emilia Pardo Bazán con Madre Natura (La Madre Naturaleza), del 1887; José María de Pereda con Il richiamo della montagna (Peñas arriba) del 1895 e finalmente Benito Pérez Galdós – considerato il più grande romanziere spagnolo insieme a Cervantes – con Misericordia (Id.), del 1897.
Per molti italiani, la storia spagnola che meriti di essere conosciuta è essenzialmente la storia della monarchia asburgica: dal regno di Carlo V a quello di Carlo II. Un’incongruenza di nomi solo apparente, perché il Carlo V imperatore – sul cui dominio non tramontava mai il sole – è stato in realtà re Carlo I di Spagna (e quinto imperatore a portare quel nome). In mezzo ai due omonimi sovrani, tre re di nome Filippo, tra cui il famigerato Filippo II. Ciò che viene prima di Carlo V (la Spagna preromana e romana, l’invasione degli arabi, la reconquista, l’unificazione) è certamente storia significativa, ma non così accattivante da suscitare l’interesse del lettore non specialista. Idem per ciò che avviene dopo il 1714, cioè con il passaggio del regno in mano dei Borboni.
Soprattutto, ciò che non piace ai lettori italiani, è la serie di turbolenze che agitano il regno di Spagna fino a tutto l’Ottocento: non piace perché è difficile seguire il filo degli avvenimenti. La Spagna sotto i Borboni è una specie di pentola ribollente, dove la pressione interna è elevatissima e che minaccia continuamente di esplodere. Eppure, in periodi come questo, di gravi tensioni politiche e sociali, la letteratura è un eccellente termometro. E a misurare la temperatura abbiamo, in un primo momento, scrittori del calibro di Miguel de Unamuno (1864-1936), con La tragedia del vivere umano (Del sentimiento trágico de la vida); Pío Baroja (1872-1956) con La via della perfezione (Camino de perfección); Azorín (1873-1967), pseudonimo di José Martínez Ruiz, con Vita di uno strano signore e Gabriel Miró (1879-1930) con la Vita del signor Sigüenza (Vida de Sigüenza).
Questo primo gruppo di scrittori e intellettuali è stato, fino a qualche tempo fa, etichettato come “Generazione del ’98”: il 1898 è stato un anno cruciale per la storia spagnola, perché ha coinciso con la perdita di Cuba e delle Filippine e dunque con la fine del suo impero coloniale. Tuttavia, è ormai appurato che tale formula – coniata dallo stesso Azorín – era più un vezzo che una dichiarazione programmatica di adesione alle istanze anticoloniali e antimperialistiche, tanto che molti scrittori e intellettuali che venivano indicati come appartenenti alla “Generazione del ‘98”, si affrettarono a prendere le distanze da quella definizione che giudicavano riduttiva e, tutto sommato, priva di senso.
Una personalità a sé stante, per la sua complessità e per la difficoltà ad essere inquadrata in una corrente precisa, è stata quella di Ramón del Valle-Inclán (1866-1936) qui rappresentato con I crociati della causa (Los cruzados de la causa), Il bagliore dei falò (El resplandor de la hoguera) e Falchi d’altri tempi (Gerifaltes de antaño), l’intera trilogia di romanzi sulle guerre carliste, che a più riprese insanguinarono la Spagna fra il 1833 e il 1876.
I lettori avranno ormai compreso che la Spagna, con l’avanzare del secolo XIX, era un paese sempre più instabile; i moti interni, le ribellioni, gli atti di violenza e le tre guerre civili che furono in sostanza le guerre carliste – nelle quali i contendenti si battevano, in linea di principio, per avere il controllo della corona, ma in realtà per il governo effettivo del paese – ebbero per effetto una rivoluzione che portò in sequenza: la detronizzazione di Isabella II; un brevissimo periodo democratico; la restaurazione monarchica con l’ascesa al trono di Amedeo duca di Savoia (lontano parente della regina detronizzata); la sua abdicazione e la proclamazione della Prima Repubblica; la Restaurazione borbonica; la dittatura di Primo de Rivera; la Seconda Repubblica e finalmente – si fa per dire – la guerra civile del 1936. Tutto ciò in meno di settant’anni. “La Spagna è una deformazione grottesca della civiltà europea”, dice un personaggio di Valle-Inclán nella commedia Luces de Bohemia. Di questo periodo incredibilmente complesso, sorprendentemente troviamo soltanto Fango e canneti (Cañas y barro) di Vicente Blasco Ibáñez (1867-1928) e Marta e Maria (Marta y María) di Armando Palacio Valdés; due romanzi di stampo realista e naturalista, rispettivamente.
La grande crisi, la fiammata che arse e consumò per tre anni le migliori energie del paese, che portò la Spagna – un paese già stanco – sull’orlo dell’autodistruzione, fu la Guerra civile del 1936, che si combattè in realtà fino al primo aprile del 1939. La biblioteca possiede, di questo tremendo eppur affascinante momento storico, due opere molto interessanti: il Romancero della Resistenza spagnola in due volumi, curati dal fine ispanista Dario Puccini e La veglia a Benicarló (La velada en Benicarló) di Manuel Azaña (1880-1940), l’ultimo presidente repubblicano prima della vittoria dei nazionalisti di Franco. Il primo è una raccolta poetica di autori spagnoli e stranieri, mentre il secondo è una sorta di diario in cui Azaña mette in scena vari personaggi di cui si serve per esporre le diverse ideologie in campo, cercando al tempo stesso di spiegare le rivalità e i confitti che stavano deteriorando la fazione repubblicana. Su questo tema è assolutamente da conoscere anche il diario di George Orwell Omaggio alla Catalogna, una descrizione di Barcellona e del fronte catalano-aragonese che costituì lo scenario da cui lo scrittore britannico prese spunto per creare il mondo allucinato e perverso di 1984.
Per consenso unanime, la voce poetica spagnola che meglio seppe esprimere la tragicità del mondo moderno, e che pagò con la vita il suo essere “non allineato”, fu quella di Federico García Lorca (1898-1936). Di lui, abbiamo ben cinque opere, oltre a due studi critici. Spiccano i tre lavori teatrali: La casa di Bernarda Alba, Nozze di sangue e Yerma, più una raccolta di poesie e un’altra di opere teatrali. I due saggi critici sono di Antonio Melis, del 1976 e di Giovanni Caravaggi, del 1980.
Degli altri due grandi poeti coevi, Antonio Machado (1875-1939) e Juan Ramón Jiménez (1881-1958), la nostra biblioteca possiede per lo più studi critici: su Machado, la monografia di Roberto Paoli, del 1971 e quella di Paolo Caucci, nella collana “Invito alla lettura”. Su Jiménez, uno studio a cura di A. Martinengo e C. Perugini, sempre nella medesima collana, e un’edizione di Platero e io (Platero y yo), la sola opera in prosa di Jiménez; una curiosa raccolta di brevissimi racconti, poco più che cartoline, avente per protagonista un asinello; forse una delle opere meritatamente più famose dell’intera letteratura spagnola.
(estratto dalla «Gazzetta di Loano», n. 3 – Mar. 2021)